Estratto: Una ragazza come me

Ecco un estratto da: Una ragazza come me i primi capitoli…

Finalmente la scuola è finita.

Finalmente la scuola è finita, sento già dissolversi la pietra che mi opprime il petto da nove mesi,” pensò Clara uscendo dall’edificio scolastico e avviandosi verso casa. Era serena finalmente, non credeva di dover temere i cartelloni con i voti. D’altra parte, era la seconda volta che ripeteva la seconda media e quest’anno era andata decisamente meglio. Ora l’aspettavano tre mesi di relax; ne aveva bisogno per potersi ricaricare e affrontare il nuovo anno scolastico.

«La terza… chissà che tortura,» mormorò tra sé aprendo la porta di casa.

A casa era sola, sua madre talvolta le lasciava qualcosa di pronto da mangiare, ma a volte non faceva in tempo e allora Clara doveva prepararsi il pranzo; solitamente si trattava di panini o di una scatoletta di tonno. Ormai era abituata alla solitudine, anzi, forse la preferiva perché, quando i suoi rientravano alla sera, sembrava che la casa fosse scossa da un terremoto.

I suoi genitori lavoravano insieme: avevano uno studio commercialista e, quando arrivavano a casa, la mamma cucinava e il papà si piazzava davanti alla televisione. La vera tortura iniziava a cena, quando la madre le rivolgeva qualche domanda sulla scuola, mentre il padre a volte la zittiva per ascoltare meglio il telegiornale. La madre quindi la incalzava per avere delle risposte, Clara sospirava e, non sapendo cosa fare, mangiava in fretta per sottrarsi a quella morsa. Il suo compito era preparare il caffè e, poiché mangiavano in sala, ritrovava qualche minuto di pace da sola in cucina.

Servendo il caffè ai genitori, che stavano già parlando di lavoro senza più curarsi di lei, Clara si estraniava dal mondo, dopodiché approfittava della loro distrazione per scappare in camera sua. Accendeva il suo immancabile lettore-cd portatile, infilava le cuffie, si lasciava cadere sul letto dove l’attendevano il suo blocco e la matita e lasciava che la fantasia corresse sul foglio. Clara non era molto brava a disegnare, faceva soprattutto disegni astratti, che sua madre chiamava scarabocchi. Quell’attività la rilassava molto e le permetteva di lasciar vagare la mente. Non sognava favole a lieto fine o principi azzurri, sognava un mondo lontano da tutti e soprattutto senza scuola. Odiava tutto della scuola: i compagni sapientoni, le ragazze che parlavano solo di moda e, prima di tutto, i professori che la umiliavano continuamente.

Un ricordo imbarazzante

La sua mente, senza chiederle il permesso, iniziò a pensare a cose che Clara non avrebbe voluto ricordare.

Ripensò alle tante mattine in cui si sentiva quasi male mentre si preparava per andare a scuola. Per fortuna, riusciva a risparmiarsi le prediche mattutine, visto che i suoi genitori uscivano prima di lei. Riusciva a evitarli nascondendosi in bagno, fingendo di prepararsi, mentre sua mamma da dietro la porta le diceva sempre la solita frase: «Mi raccomando a scuola, stai attenta e non prendere brutti voti. Ci vediamo questa sera.»

Lei la salutava dicendo, «Sì, mamma, ciao,» e facendo rumore con la spazzola sul marmo del lavandino per fingere di acconciarsi i capelli o cose simili. In realtà, non curava molto il suo aspetto e, di solito, se ne stava seduta pazientemente in attesa sul wc, già vestita con jeans e maglia di due taglie più grandi, che indossava come a volersi nascondere meglio, i capelli raccolti in una semplice coda con un elastico anonimo e gli occhiali spessi.

«Potrei essere benissimo scambiata per una secchiona, invece sono tutt’altro,» pensava sospirando. Aspettava di sentir chiudere la porta di casa per uscire e, finalmente, nella casa vuota, restava a guardare la malinconica ma inesorabile lancetta dei minuti scorrere, prima di incamminarsi verso la scuola.

«Che la tortura abbia inizio,» si ripeteva ogni giorno, quando arrivava nello spiazzo davanti all’edificio scolastico. In classe aveva qualche amica e questa era l’unica cosa che le dava la forza di alzarsi dal letto la mattina. Monica era la più simpatica; nonostante fosse brava a scuola e fosse decisamente una bella ragazza, sembrava provare una sincera simpatia per lei. Di solito l’accoglieva con un sorriso davanti al cancello di scuola. A volte, durante i compiti in classe, le passava anche qualche soluzione e una volta l’aveva anche invitata a casa sua per studiare insieme.

Avevano preparato un testo di inglese da ripetere in classe. Clara avrebbe dato qualunque cosa per saper parlare un’altra lingua, ma ogni volta che si metteva in testa di studiare seriamente e cercava di memorizzare tutti quei vocaboli in vista di un’interrogazione o un compito in classe, puntualmente, il giorno dopo, si ritrovava la mente completamente vuota davanti alla professoressa o al foglio da compilare. I sogghigni dei compagni e gli sguardi corrugati dei professori erano delle lame dritte al cuore, ma più si sforzava e più la mente era buia.

«Un’altra scena muta, Clara?» disse quella volta la professoressa.

«Ho studiato prof, veramente.» Di più non riuscì a dire. Non voleva certo scoppiare a piangere davanti a tutti, sarebbe stato proprio il colmo.

«Allora dimmi qualcosa, qualunque cosa,» la incoraggiò la donna con fare quasi affettuoso. Come avrebbe voluto non deludere di nuovo quell’insegnante, che tra tutti sembrava essere la più gentile, ma niente!

«Ok, torna a posto. Magari la prossima volta, se vuoi raccontarmi qualcosa…» L’insegnante lasciò gentilmente in sospeso la frase e Clara tornò al suo banco. “Salva!” pensò.

Quella volta però non finì tutto così.  Monica alzò la mano e disse: «Professoressa, mi scusi, posso dire una cosa?»

«Certo, Monica, dimmi pure.» Ovviamente il tono della professoressa era ancora più dolce con la prima della classe.

«Ieri ho studiato insieme a Clara e la lezione la sapeva bene…»

La classe scoppiò a ridere.

L’insegnante ripristinò l’ordine, poi chiese: «Clara, è vero?»

«Sì, ieri sapevo la lezione, ma oggi, non so… non ricordo…»

Clara era sorpresa dall’intervento di Monica: sembrava veramente sincera nell’aiutarla ma, dentro di lei, avrebbe preferito che tutto fosse già finito. Stava sudando freddo e si sentiva le guance bruciare; era sicura di essere rossa come un peperone. Come superare quest’altra umiliazione? In quel momento odiò ancora di più la scuola e giurò che mai e poi mai sarebbe andata di nuovo a studiare a casa di qualcuno se poi il risultato doveva essere subire un’ulteriore sofferenza.

La professoressa allora insistette, facendole altre domande a cui lei non sapeva rispondere.

«Ma, se ieri sapevi la lezione, possibile che oggi non la ricordi?» chiese la donna contrariata; stava perdendo la pazienza e, dopo circa dieci minuti, segnò un quattro sul registro chiudendo il discorso.

Ci sarà un fondo prima o poi,” pensò Clara con un nodo alla gola e con i pugni serrati. Doveva riuscire in tutti i modi a resistere, non doveva scoppiare a piangere per nessun motivo al mondo. Non si girò nemmeno a guardare Monica, ma sentiva i suoi occhi addosso. Forse non riusciva a capire com’era possibile che non avesse risposto a domande che il pomeriggio prima sapeva.

Suonò la campanella, la giornata era finita. Clara afferrò le sue cose e scappò via. Monica la chiamò, ma lei nemmeno si girò. Corse via, non poteva fermarsi, non sarebbe riuscita a trattenere oltre le lacrime. Una volta a casa, pianse a dirotto. Il giorno dopo, finse un mal di pancia e rimase a casa. Essendo venerdì sperava di poter guadagnare almeno un po’ di tregua.

Quel pomeriggio Monica la chiamò e le chiese scusa, dicendo che non voleva mortificarla ma aiutarla.

«Lo so, grazie, non è colpa tua. Devo aver preso un virus,» minimizzò Clara, «per questo non sono venuta a scuola.»

«Meno male, pensavo che fossi rimasta a casa per colpa mia,» disse Monica tirando un sospiro di sollievo.

«Figurati, forse non riuscirò a venire nemmeno domani.»

«Ti porto i compiti?»

«No,» quasi urlò Clara; poi, rendendosi conto del suo tono, cercò di rimediare. «Grazie, ma non devi darti tanta pena per me, sono un po’ tonta,» rise per nascondere l’imbarazzo.

«Non dire così,» disse sconsolata Monica.

«Ora devo andare, i miei fra poco saranno a casa e devo preparare qualcosa per cena,» mentì la ragazzina per togliersi dal disagio.

«Ok, a lunedì allora.»

«Ciao.» Quell’arrivederci l’aveva rincuorata. Le sarebbe pesato meno quel tragitto fino a scuola il lunedì successivo, grazie al pensiero di poter trovare un’amica come Monica. Ma le cose andarono diversamente.

Al suo arrivo il sollievo svanì in un secondo. Monica la salutò appena e incominciò a guardarla con tanta pena negli occhi, come si osserva un cucciolo abbandonato.

Quanta angoscia nel cuore di Clara. Per fortuna era maggio e l’anno scolastico volgeva al termine. Non avrebbe potuto sopportare quello sguardo ancora a lungo.

Ma la scuola era quasi finita e, per un bel po’ di tempo, tutte quelle cose sarebbero state solo un ricordo da dimenticare.

Uno shock

Non voglio pensare a nessuno, voglio solo divertirmi e rilassarmi. Speriamo che i miei non mi appioppino un’altra insegnante per fare i compiti estivi come hanno fatto l’anno scorso, sarebbe proprio una palla!” pensò Clara disegnando una serie di cerchi, immaginando forse un’altra galassia.

Cercò di far sì che i pensieri si perdessero nella canzone che stava ascoltando: era malinconica e sembrava fatta apposta per lei, ma l’idillio finì quando entrò in camera sua madre.

«Clara, dobbiamo parlare,» disse seria.

Non era una novità. “La solita ramanzina prima di andare a dormire. Che palle!” pensò la ragazzina. La madre si sedette sul letto e, con un modo di fare che avrebbe voluto essere affettuoso, ma che sembrò tutt’altro, iniziò a elencare tutte le cose che non andavano in lei. Il vestiario trasandato, le lenti a contatto che le aveva comprato ma che lei aveva dimenticato in un cassetto perché si ostinava a usare quei vecchi occhiali, la mancanza di amici, il fatto che non usciva mai e bla bla bla. Poi arrivò il tasto dolente: la scuola.

«Mamma, uffa! Fammi godere le vacanze! La scuola è finita solo oggi,» disse Clara spazientita.

«Non bisogna perdere tempo. Io e tuo padre abbiamo parlato e…» La donna fece un sospiro come a prendere coraggio.

Clara la interruppe. «No! Non un’altra insegnante, mi sento un’handicappata. Li farò io i compiti, da sola, non preoccuparti.»

«Clara, dici sempre così, ma poi…»

Per un attimo Clara scorse negli occhi di sua madre, che era sempre fiera e autoritaria, un barlume di disperazione e questo le fece male. Avrebbe voluto tanto essere la figlia che lei si meritava ma, nonostante ci avesse provato tante volte, non c’era mai riuscita.

Comunque una cosa era certa, non voleva una nuova baby-sitter per fare i compiti. Incrociò le braccia sul petto e mise il muso.

Dopo un altro sospiro, la madre continuò: «Dicevo, io e tuo padre…»

Quel tono Clara lo conosceva bene, era il preludio di qualcosa che non le sarebbe piaciuto e, per un attimo, intuì che forse non sarebbe stata semplicemente un’insegnante la cattiva notizia: c’era dell’altro. Capì di avere ragione quando la madre continuò: «Abbiamo deciso di mandarti in un collegio estivo.»

Una bomba fatta scoppiare nello stomaco di Clara avrebbe fatto meno male.

«COOOSAAA!!!» Era esterrefatta.

«È una scuola bellissima, in montagna, immersa nel verde, vi faranno fare anche delle escursioni, tante passeggiate all’aria aperta, per ossigenare il…» Parlò a raffica, ma su quella parola esitò un attimo, poi continuò, convinta della sua scelta. «Insomma, ossigenare bene il cervello lo farà funzionare meglio!» disse compiaciuta.

«Stai scherzando? Cos’è, una specie di scuola per ritardati? Io non ci vado!»

«Tu ci vai! È già deciso e poi non sarai sola, ci va anche tuo cugino Moreno,» aggiunse la donna, come se quello potesse aggiustare tutta la faccenda.

«Chi? E chi lo conosce? L’ultima volta che l’ho visto avevo cinque anni.»

«Sono già tre anni che lui va lì e il suo rendimento scolastico è migliorato. Ti farà bene.»

«No! Non ci vado.»

Sua madre si alzò in piedi, apparentemente calma. «Tu ci vai e basta, comando io e tu devi obbedire. Non vorrai passare l’estate su questo letto a fare questi stupidi scarabocchi e ad ascoltare musica.»

Così dicendo si avviò alla porta, ma Clara urlò ancora: «Cosa vuol dire tutta l’estate, quanto dura questa “cosa” estiva?»

La madre si girò, la fissò con occhi che sembravano non tradire nessun sentimento.

«Tre mesi,» rispose calma e poi uscì.

Clara era pietrificata. Reagì solo quando la donna era già uscita.

«E così volete liberarvi di me per tutta l’estate? Allora perché non mi uccidete così la facciamo finita subito!»

Le sue urla senza risposta rimasero sospese nella stanza e lei si lanciò sul letto soffocando il pianto con il cuscino.

Il giorno dopo, la mamma di Clara rimase a casa dal lavoro per aiutarla a fare i bagagli. Doveva portare sia vestiti leggeri che pesanti.

«In montagna non si sa mai,» le aveva detto.

Clara era come un automa, eseguiva gli ordini di sua madre senza parlare. All’ora di pranzo avevano quasi finito. La madre, che interpretava la tranquillità della figlia come un aver acconsentito ai suoi progetti, era abbastanza allegra e disse: «Bene, siamo a buon punto, ma ora mi è venuta fame. Facciamo uno spuntino, cosa ti va?»

Clara si limitò a guardarla e poi si buttò sul letto.

«Dai, non fare così, pensavo avessi capito che è per il tuo bene!»

Clara non rispose, era inutile. Era brutto dirlo, ma già alla sua giovane età aveva rinunciato a lottare. A lottare per imparare, a lottare per i suoi diritti, a lottare per avere ciò che tutti avevano: due genitori che l’amassero e l’accettassero. La madre pensò che fosse meglio lasciarla tranquilla e andò in cucina a mangiare da sola, pensando forse che la figlia l’avrebbe raggiunta.

La donna però non sapeva che spesso Clara non mangiava a pranzo, proprio per via di questa apatia che l’aveva investita e che non voleva lasciarla andare.

La mamma di Clara non capiva sua figlia, non capiva come potesse andare così male a scuola. Sia lei che suo marito erano sempre stati bravissimi e popolarissimi a scuola, mentre la figlia era un’emarginata.

La mamma di Clara non sapeva quanto amore provasse sua figlia per lei e non sapeva che, se la ragazzina avesse potuto esprimere un desiderio al genio della lampada, avrebbe chiesto: “Fammi essere la figlia che mia madre vorrebbe.

Clara non sapeva che la madre, in fondo al cuore, era devastata, che si sentiva fallita come genitore.

Clara non sapeva che ogni volta che litigavano, la donna andava a chiudersi in camera sua e piangeva proprio come la figlia, affondando il viso nel cuscino.

Clara non sapeva che a sua madre si spezzava il cuore al pensiero di doversi separare da lei per tre mesi. Quando aveva preso quella decisione, aveva passato la serata e parte della notte a sfogliare l’album delle foto della sua piccola bambina.

Clara non sapeva che la decisione di sua madre le avrebbe cambiato la vita.

Dopo un paio d’ore, Lorena, la mamma di Clara, tornò da lei con un toast e un bicchiere di latte. Come quando era piccola e non stava bene, l’unica cosa che riusciva a farle mangiare era toast e latte. Ma lei le voltò di nuovo le spalle.

«Dai, non ci vedremo per un bel po’, perché non finiamo i bagagli e poi facciamo qualcosa insieme?»

Ecco l’occasione che Clara aspettava per vendicarsi. Lorena aveva mostrato il fianco e lei fu pronta a pugnalarla.

«Finiamo i bagagli e poi vai pure in ufficio. Sai… non sono abituata ad averti intorno e mi dai fastidio.»

Lorena indossò nuovamente la sua maschera di ghiaccio e rispose pronta: «Se è così, arrangiati da sola e bada di non dimenticarti nulla… altrimenti, peggio per te.»

Lasciò la stanza e uscì di casa, mentre Clara si sentiva, nello stesso momento, meglio e peggio.

L’arrivo

Fu il padre di Clara ad accompagnarla alla scuola; ci vollero tre ore di macchina e durante il tragitto non parlarono quasi mai. Lui usò spesso il telefono con il viva voce, così Clara fu costretta, suo malgrado, ad ascoltare ogni cosa. Anche Lorena chiamò quando furono arrivati. Forse aveva calcolato il tempo e voleva assicurarsi che la figlia stesse bene, ma Clara era convinta che fosse semplicemente in pausa pranzo.

La scuola sembrava un grande albergo di montagna e forse in origine era così.

L’atrio era una grande hall con bancone e tutto il resto. C’era la mensa sulla sinistra, a destra tre porte e su ognuna di esse una targhetta con scritto “ufficio”. Al primo piano si trovavano le varie aule, mentre i tre piani sovrastanti erano composti dalle camere degli studenti: lato destro ragazzi, lato sinistro ragazze. Clara era al secondo piano. Ovviamente i ragazzi stavano arrivando e c’era un gran via vai.

La signora di mezza età che li accolse era molto gentile. Si presentò come la professoressa di matematica e Clara immaginò che, appena avesse potuto valutare la sua preparazione, tutti quei sorrisi che le rivolgeva sarebbero scomparsi. Le indicò la sua camera e si congedò. Il papà di Clara andò a prendere i bagagli e, quando tornò in camera, esitò un po’: ora che erano soli non sapeva come salutare la figlia.

Fu Clara a toglierlo dall’imbarazzo.

«Vai papà, la strada è lunga e non voglio che fai tardi.»

«Hanno detto che stanno allestendo un buffet di benvenuto, ma noi genitori non siamo invitati,» farfugliò come se parlasse del tempo.

«Ti ho già detto di andare, non preoccuparti.»

Clara voleva rimanere sola, il prima possibile.

Per fortuna la camera era proprio accogliente; era piccola, ma aveva tutto, perfino il bagno personale. Non capiva perché ci fossero due letti singoli, ma non le importava, sarebbe stata più comoda. Una grande finestra dava sui boschi e pensò che forse non sarebbe stata poi così male.

«Ricordati che dovrebbe arrivare anche Moreno. Gli abbiamo chiesto di aiutarti ad ambientarti. Lui sarà nel lato dei ragazzi… ma sono sicuro che…»

Povero papà, sono sicura che tu non eri d’accordo, questa è solo una pessima idea di quella vipera che ho per madre,” pensò risentita Clara.

«Ti accompagno alla macchina, così vai via sereno,» disse e pensò: “Soprattutto, così vai via.

Clara non ricordava più quando lei e suo padre avevano smesso di parlare. Forse era accaduto in seconda elementare, quando lui aveva smesso di andare ai colloqui a scuola.

Si salutarono e lei ritornò in camera sua. Tirò fuori dallo zaino il lettore-cd portatile, il blocco e la matita. Si buttò sul letto e sprofondò nell’isolamento del suo io.

La coinquilina

Dopo un tempo che non avrebbe saputo quantificare, Clara alzò gli occhi dal blocco e vide ferma davanti a sé una ragazza. Aveva dei lunghi capelli rossi ondulati, il viso pieno di lentiggini, un delizioso nasino all’insù e un paio di occhiali da sole che celavano, come scoprì in seguito, due grandi occhi verdi.

«Cosa ci fai qui?» chiese Clara appena si riprese dallo shock. “Devono avere sbagliato ad assegnarle la camera,” pensò sorpresa.

«Questa è anche la mia camera, ma di solito prendo io il letto vicino alla finestra,» disse la sconosciuta.

«Cosa? Dobbiamo dividere la stanza?»

Clara era esterrefatta. Dividere la camera con una perfetta sconosciuta? Le cose stavano andando peggio del previsto.

«Pensavi di avere una camera tutta per te? Non ti avevano avvertita? Comunque… nessun problema, prendo io l’altro letto.» La naturalezza di quella ragazza era disarmante.

«Non so molto di questa… scuola. I miei mi hanno spedita qui senza discuterne con me.»

Ma perché sto raccontando i fatti miei a questa qui?” pensò.

La ragazza dai capelli rossi scrollò le spalle.

«Tipico! Io sono anni che passo qui le mie vacanze e ho avuto tante compagne. Di solito mi appioppano quelle del primo anno e…» le fece un sorriso benevolo, «non sei l’unica che parcheggiano qui senza farle leggere nemmeno un opuscolo.»

Clara era meravigliata.

«Cosa vuol dire che sono anni che passi qui le vacanze?»

La ragazza scrollò di nuovo le spalle e appoggiò il trolley sul letto senza rispondere. Iniziò a disfare i bagagli come se fosse la cosa più naturale del mondo e Clara pensò che forse anche lei avrebbe dovuto provvedere a quell’operazione. La cosa non le era nemmeno passata per l’anticamera del cervello, come se quello non fosse stato il posto dove doveva effettivamente rimanere. Vedere la sconosciuta darsi tanto da fare per rendere quella sua parte di mondo confortevole, la risvegliò dal torpore e, dopo essersi alzata, iniziò a sistemare le sue cose.

Così, in silenzio, cominciarono a occupare l’armadio, i cassetti e la specchiera in bagno. Si vedeva che la ragazza era pratica: metteva tutte le sue cose da una parte o solo su un ripiano, in modo da lasciare spazio per la coinquilina. Clara non doveva fare altro che adattarsi e le venne naturale.

«Fatto,» dichiarò la rossa, posizionando la valigia sotto il letto. Batté le mani come a voler scrollare della polvere, ma si trattava solo di un modo per dichiarare concluse le operazioni, visto che la stanza era pulita. Fissò Clara, abbassando gli occhiali sul naso, e chiese: «Come ti chiami?»

«Clara.»

Era vero, non si erano nemmeno presentate. Quella ragazza un po’ anticonformista iniziava a piacerle.

«Piacere, io sono Sara,» rispose l’altra guardandosi intorno, come a non voler dare troppo peso alle presentazioni. «Fra una mezz’oretta suoneranno il raduno. Io leggo un po’ se non ti dispiace, tanto è inutile che ti spiego come funziona qui, te lo diranno alla presentazione.» Così dicendo, si lasciò cadere sul letto e prese il libro che aveva posizionato sul tavolino. Non disse più nulla, ma a Clara andava bene così. Se le fosse capitata una coinquilina chiacchierona non sarebbero andate per niente d’accordo.

Clara non sapeva che Sara, la sua nuova compagna, in realtà era molto di più di una semplice chiacchierona, solo che ci impiegava un po’ a prendere confidenza.

Clara non sapeva che ben presto avrebbe apprezzato il fatto di poter parlare tanto con qualcuno…

Come aveva detto Sara, dopo circa mezz’ora suonò una specie di sirena. La ragazza si alzò dal letto e si rimise gli occhiali da sole. “Strano,” pensò Clara mentre la giovane si avviava alla porta e lei la seguiva. Scesero nel salone dove c’erano già dei ragazzi ai quali se ne aggiunsero altri ancora. Erano tutti di età diverse: molti provenivano delle scuole elementari (quarta o quinta, a giudicare dall’altezza), gli altri non andavano più in là della scuola superiore. Clara notò che molti portavano occhiali da sole. “Strano,” pensò ancora.

Clara si guardò intorno: sul lato destro del salone avevano messo un gran tavolo imbandito di ogni prelibatezza e su quello sinistro c’erano dei tavoli rotondi che non ricordavano per nulla le tavolate delle mense. Tutti quei dettagli, che si allontanavano dall’idea di istituto scolastico, rincuoravano Clara, che poteva illudersi di trovarsi in un albergo per le vacanze, invece che in una scuola per, come era convinta lei, “ritardati”.

Dopo qualche minuto, il salone divenne affollatissimo. Poi si sentì una voce dagli altoparlanti. In fondo alla grande sala avevano sistemato un piccolo podio, dove la signora che le aveva indicato la camera, la professoressa di matematica, era salita per parlare al microfono.

«Buongiorno a tutti e ben arrivati. Sono la professoressa Frassoni. Chi non ha ancora sistemato le sue cose in camera potrà farlo nel pomeriggio. Ora vi spiego, soprattutto per quelli nuovi, come si svolgeranno le cose in questi tre mesi, poi faremo uno spuntino e da domani inizieremo il vero lavoro.»

«Fantastico!» borbottò Clara. Aveva perso di vista Sara tra quella folla e si sentiva un po’ sola. Avrebbe dovuto cercare suo cugino, ma non ne aveva voglia. “Tanto anche lui è uno sconosciuto, in fin dei conti,” pensò.

La professoressa continuò.

«Ogni mattina farete colazione alle 7,30: vi verrà assegnato un tavolo e dovrà rimanere quello per tutto il tempo che resterete qui. Alle 8,30 inizieranno le lezioni. Ognuno avrà la sua classe; vi verranno dati i libri e tutto il materiale domani mattina. Ci saranno cinque ore di lezione con dieci minuti di pausa dalle 10,20 alle 10,30 e poi il pranzo. Nel pomeriggio del lunedì, mercoledì e venerdì ci saranno le escursioni con annessa attività fisica; il martedì e il giovedì l’incontro con i docenti e il sabato avrete il pomeriggio libero, ma non vi sarà permesso allontanarvi.» Fece una piccola pausa, forse per dare più peso a quell’ultima affermazione, poi riprese: «Nelle vostre camere troverete un opuscolo che spiega tutte le regole e qual è la vostra aula. Esigiamo la puntualità per non disturbare chi sta svolgendo il proprio lavoro. Perfetto, mi sembra di aver detto tutto.» La professoressa Frassoni si guardò intorno cercando tra i suoi colleghi, che erano dietro di lei, dei suggerimenti riguardanti cose che poteva aver dimenticato, ma nessuno disse nulla. Poi da uno dei ragazzi arrivò una domanda: «La domenica?»

La professoressa si voltò verso i giovani e disse a voce alta, facendo fischiare un po’ il microfono: «Vengono a trovarvi i vostri genitori e pranzerete tutti insieme qui, così potrete fare loro un resoconto del vostro andamento e… ah, già, qui vicino c’è una piscina che potrete raggiungere anche con le nostre navette, basta che vi organizziate in gruppi di sei. Chiedete alla direzione i dettagli se siete interessati. Grazie, credo sia tutto, ancora ben arrivati e… mangiate pure.»

Clara, che era vicina al tavolo del buffet, vide che all’improvviso si giravano tutti verso di lei. Ovviamente erano interessati al cibo, ma la cosa la turbò comunque e così cercò di aprirsi un varco e di uscire dalla stanza. Non aveva fame. Del resto come poteva averne? Si trovava in un campo di lavoro e la domenica sarebbe stato il giorno più brutto di tutti. Poi rifletté un attimo e pensò che sicuramente i suoi genitori non avrebbero passato tutte le domeniche da lei: avevano sempre un sacco di cose da fare e tre ore di macchina per arrivare e altre tre ore per tornare… “No,” si disse, “forse verranno una o due volte per non sentirsi troppo in colpa.” Un debole e triste sorriso le apparve sulle labbra e, ancora una volta, quella sensazione di sollievo misto a dispiacere le avvolse il cuore. Quanti sentimenti contrastanti aveva sempre dentro di sé.

Senza rendersene conto, stava salendo le scale per andare in camera. Non era l’unica: c’erano altri che scappavano da quel salone e si guardavano intorno con aria spaesata. Forse erano “quelli del primo anno”, come li aveva definiti Sara, riferendosi sicuramente al fatto che era la prima volta che andavano lì. Pensò che sicuramente Sara avesse raggiunto le amiche che, anno dopo anno, avevano condiviso con lei il fardello di quel collegio estivo. Pensava di aver trovato un’amica, ma era stata un po’ troppo precipitosa nel suo giudizio.

In camera, sul letto, trovò l’opuscolo di cui aveva parlato la professoressa. Guardò solo quale sarebbe stata la sua classe la mattina dopo e non lesse altro. Una piccola piantina indicava la classe “quadrifoglio” come quella che preparava alla terza media: era la sua. Che stupidaggine chiamare le classi come se fossero all’asilo: c’era il quadrifoglio, la margherita, la ginestra, i cuccioli… Era proprio una scuola per… “ritardati”.

Dopo un bel po’ di tempo, Sara rientrò.

«Dove eri finita? Ti avrei presentato qualcuno, ma fa niente, avrai modo di conoscere tutti.» La ragazza scansò con la mano l’opuscolo, facendolo finire a terra, e si lasciò cadere sul letto. Sembrava esausta. Si sfilò gli occhiali e, dopo aver fatto qualche respiro profondo, si voltò verso Clara che la stava fissando. «Sai, qui il primo giorno sembriamo in tanti, ma con il passare delle settimane impari a conoscere tutti e, alla fine, hai la nausea di questi visi. Fai bene a stare sulle tue.» Senza aspettare risposta, si alzò. «Vado in bagno per prima, ok?» Neanche per quella domanda aspettò una risposta, che comunque non arrivò.

Clara si limitò a guardarla prendere il suo beauty dal ripiano basso dell’armadio e la biancheria. Si preparava per andare a letto? Ma erano sole le 18,00! Forse quella sera non avrebbero cenato? Clara per un attimo si pentì di non aver mangiato nulla, ma poi si disse che non le importava.

La serata passò così, Sara lesse e Clara disegnò.

La mattina dopo, alle sette, ci fu la sveglia, o per meglio dire quella specie di sirena del giorno prima. Clara aprì pigramente gli occhi. “Mattinieri qui,” pensò. Si voltò verso la sua compagna di camera, ma il suo letto era vuoto e già in perfetto ordine. Poco dopo, la ragazza uscì dal bagno già vestita: non indossava nulla di speciale, solo un paio di jeans e una maglietta a maniche corte, ma aveva un bel fisico e stava veramente bene. Le sorrise e quel sorriso di prima mattina, in un ambiente estraneo, le fece piacere, tanto che quasi provò imbarazzo ad ammetterlo a se stessa. “Tutti dovrebbero svegliarsi con qualcuno che gli sorride,” pensò tra sé.

Clara contraccambiò il sorriso e si alzò.

«Il bagno è tutto tuo,» disse Sara con una bella voce squillante. Poi, quasi indecisa se dirlo o meno, aggiunse: «Non so se lo hai letto…» Indicò l’opuscolo sul comodino di Clara e la ragazzina fece no con la testa. Allora Sara con un sospiro continuò: «Immaginavo. Comunque sappi che siamo noi a dover tenere pulita la nostra stanza. Vengono a detergerla solo il lunedì mattina, ma ci sono le ispezioni e dobbiamo rifarci il letto e tenere in ordine e pulito il bagno.»

«Altrimenti?» chiese Clara.

Sara fu sorpresa dalla domanda e abbozzò un sorriso, poi scrollò le spalle.

«Ti torturano nelle segrete,» rispose, ma poi non seppe resistere e scoppiò a ridere. «Scusa, scherzo, ti assegnano compiti extra e qualche seduta in più.»

«Seduta?» Clara non capiva.

«Già. Quelli che loro chiamano “incontri con i docenti” in realtà sono incontri con degli “strizzacervelli”,» e questa fu tutta la sua spiegazione. Poi aggiunse con tono solenne: «Ma, soprattutto, io amo l’ordine e la pulizia, quindi spero che anche tu farai la tua parte.» Clara annuì decisa e Sara, soddisfatta, raccolse il suo zaino e uscì.

Clara rimase con quella parola, “strizzacervelli”, che le rimbalzava nella testa. “Certo,” pensò, “nella scuola dei ritardati ci sono gli psicologi, è ovvio”. Ma la cosa l’aveva sorpresa e ferita. Chissà quante altre brutte sorprese l’aspettavano quel giorno.

Scese a mangiare e cercò il suo posto nel salone. Tutti i tavoli rotondi erano stati rimessi in mezzo alla stanza, che sembrava ancora più grande. Quasi tutti gli studenti erano ai loro posti e fu contenta quando vide che Sara era al suo stesso tavolo.

Quando si sedette, la ragazza si chinò verso di lei e le mormorò: «Non preoccuparti, di solito teniamo i posti assegnati solo per le prime due settimane, poi ognuno si siede dove vuole.»

Clara le sorrise come se la cosa la divertisse, ma in realtà fu spaventata da quella rivelazione. Già si immaginava in un tavolo completamente sola. Se fossero stati costretti nei loro posti, almeno sarebbe rimasta in compagnia. Ma se diventava una libera scelta… “Chi vorrà sedersi con me?” pensò sconsolata.

La colazione prevedeva la scelta tra il classico latte o il tè, con brioche, cereali o yogurt. C’erano dei grandi vassoi che occupavano il centro del tavolo e ognuno prendeva dalle caffettiere ciò che voleva. I tavoli erano da sei e al suo, oltre a Sara, c’erano altre quattro ragazze: due timide e insicure come lei (sicuramente erano delle primine), mentre le altre due erano spavalde e decise, sicuramente vecchie conoscenti di Sara. Continuavano a parlare, a ridere e scherzare, a indicare altri seduti ai tavoli vicini, a salutare con la mano con fare disinvolto. Sara non stava zitta un attimo, non sembrava nemmeno la stessa ragazza che condivideva la camera con lei e questo la spiazzava molto. A Clara tornò in mente suo cugino Moreno e pensò che tanto valeva incontrarlo subito e togliersi il pensiero. Guardandosi intorno, però, non riuscì proprio a capire chi potesse essere. D’altra parte, erano passati tanti anni e chissà com’era cambiato. Pensò: “Magari passano tre mesi e non riusciamo nemmeno a incontrarci, pensa che smacco per i miei.” Rise fra sé, attirando la curiosità delle altre commensali.

«Cosa hai da ridere?» le chiese la ragazza bruna di fronte a lei.

«Nulla, stavo pensando una cosa buffa,» si schermì Clara.

«Dilla anche a noi, qui non c’è mai nulla di divertente,» intervenne la bionda con gli occhiali.

Osservando bene le ragazze sedute al tavolo con lei, Clara pensò che non sembravano proprio delle “sfigate”, anzi, assomigliavano alle classiche  ragazze popolari della sua scuola, brillanti e carine.

Cosa ci faccio a questo tavolo?” pensò sconsolata. Poi Sara la destò con una leggera gomitata.

«Dai, dicci cosa c’è di buffo che noi non abbiamo notato!»

Clara non sapeva cosa dire, quindi optò per la verità; tanto che male poteva fare?

«Qui, tra tutti questi ragazzi, c’è anche mio cugino, ma non lo vedo.» Fece una piccola pausa. Ovviamente, fino a quel punto, non aveva detto nulla di divertente, allora ci pensò un po’ e aggiunse: «Ridevo perché i miei mi hanno detto di essersi raccomandati a lui affinché mi controllasse, ma credo che i tre mesi di permanenza passeranno senza che riesca a trovarmi.» Non era una cosa poi così buffa adesso che la esponeva ad alta voce, ma le ragazze risero comunque e lei ne fu compiaciuta.

«I genitori a volte sono ridicoli. Cosa vogliono, che ti faccia da guardia del corpo?» chiese Sara.

«Cosa credono che ti possa accadere qui?» aggiunse ridendo la ragazza bionda che si chiamava Lucia. «Comunque, come si chiama tuo cugino e quanti anni ha?» concluse la ragazza mora, Mara.

«Moreno Moringhi, ha 2 anni più di me. »

«Non avete lo stesso cognome,» dichiarò Lucia che aveva già chiesto informazioni sulla nuova arrivata a Sara.

«No, lui è figlio del fratello di mia madre, quindi… cognomi diversi.»

«Giusto,» concordò la ragazza.

«Io mi sono persa, con le parentele faccio un gran casino,» rise di nuovo Mara.

«Io lo conosco. Sono già tre anni che viene qui. È un tipo a posto, anzi super direi» dichiarò Sara e nessuno si accorse dalla sua strana espressione, nemmeno Clara che di solito notava gli impercettibili atteggiamenti altrui.

«Chi è, Sara? Non mi viene in mente,» le chiese Lucia con tono complice.

Sara si guardò intorno e trovò Moreno; ormai la colazione stava per finire e i tavoli si stavano svuotando. Lui era seduto nell’angolo a destra del salone, mentre Clara con le sue amiche erano al centro; nonostante la distanza, Sara riuscì a indicarlo. Tutte si girarono, anche le due che non avevano parlato ma che avevano ascoltato con vivo interesse.

«Sì, mi ricordo di lui, è un gran figo. L’anno scorso gli andava dietro mezza scuola, ma lui non si filava nessuna,» disse Lucia fissando il ragazzo.

«Ma come parli?» le chiese ridendo Sara.

«Perché? Uso un gergo giovanile,» rispose Lucia ridendo anche lei.

Le ragazze si alzarono e Sara si rivolse a Clara.

«Vuoi andare a salutarlo adesso?»

«No,» rispose lei pronta, senza nemmeno pensarci.

«Allora andiamo a lavarci i denti, così poi ti faccio vedere dov’è la tua classe è la stessa che frequenta lui.»

Clara era sorpresa, non si aspettava tanta disponibilità da parte di Sara; l’aveva giudicata fredda e distaccata, ma forse non era proprio così. Poi pensò che era strano che suo cugino frequentasse la sua stessa classe, era più grande, forse era stato bocciato o forse nella sua classe c’erano anche ragazzi più grandi che magari dovevano riprendere certi argomenti. Con una scrollata di spalle lasciò scivolare via quei pensieri, non voleva preoccuparsi troppo di dettagli, secondo lei, inutili.

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